Inizio la terapia!

Quando si decide di intraprendere l’inizio di un percorso terapeutico significa che si è passati probabilmente da un periodo in cui sono sorti tanti dubbi, perplessità, sofferenza e incertezza. Arrivare a scegliere chi ci accompagnerà durante questo momento difficile può rappresentare un’ulteriore fonte di disagio, stress e ansia!

Contattare il professionista quindi è il primo passo per mettersi nella condizione che, avendo già provato diverse strade, questa, è quella che offre l’opportunità di risoluzione della problematica.

Gli elementi che definisco puramente oggettivi e che sono le classiche domande che ci si pone sono:

  • Uomo o donna?
  • Vicino casa/lavoro?
  • Quanto durerà?
  • Quanto costerà?
  • Modalità di pagamento…
  • Quale approccio terapeutico?

Sono tutte valutazioni valide da tenere in considerazione e da affrontare poi con il professionista.

Da chi vado?

La ricerca avviene molto spesso tramite una ricerca online, sulla base degli elementi oggettivi, oppure molto comunemente mediante il passa parola (me lo ha consigliato…; me ne hanno parlato bene), lo seguo su Instagram, ho letto diversi libri/post, ho letto delle buone recensioni, me lo ha consigliato lo psichiatra o medico di famiglia… Avere un feedback da qualcun altro, il parere di qualcuno di cui ha avuto un’esperienza positiva, ha usufruito di quel servizio, ci rassicura in qualche modo.

Attenzione però, quello che è valido per il mio amico potrebbe non esserlo per me e quindi rivelarsi una delusione. E qui mi soffermo nel sottolineare che si tratta di esperienze soggettive e che quindi quel professionista probabilmente non è stato un incompetente ma probabilmente non ha empatizzato con il paziente, o non si è creata quella sintonia che ci fa sentire a nostro agio e che quindi non ci permette di entrare in relazione con il professionista o viceversa. Ovviamente sto parlando per quel che riguarda il primo incontro, quindi le prime impressioni a caldo. Una volta intrapreso il percorso è importante condividere con la/il propria/o terapeuta qualsiasi sensazione, vissuto di malessere, fastidio, delusione, rabbia nei confronti di essa/o. Sarà un ottimo spunto di lavoro terapeutico da affrontare insieme.

Ma Come Scelgo Per Me?

Ne deriva che la scelta è soggettiva, una volta che si sono valutati gli elementi oggettivi, è importante sentirsi al sicuro, accolti, ascoltati e a proprio agio nel condividere con il professionista parti di noi.

In letteratura ci sono diversi studi volti ad individuare le caratteristiche, le metodologie, gli approcci terapeutici più efficaci. Sono stati indagati diversi fattori e di seguito ne riporto solo alcuni di quelli presenti tra i molteplici studi condotti.

Per Frank (1973; 1982) il cambiamento terapeutico è promosso dai fattori comuni: una relazione emotivamente protetta e basata sulla fiducia con il professionista, un setting di sostegno; uno schema logico-concettuale, un rituale terapeutico.

Rosenzweig nel 1936 individuava alcuni fattori atti a migliorare l’efficacia delle psicoterapie, quali: la relazione Terapeutica, un’ideologia sistematica o teoria, la possibilità di intervenire su un aspetto di un problema per attuare il cambiamento e la personalità del terapeuta.

Quello che emerge dagli studi in letteratura, volti ad indagare l’efficacia delle psicoterapie e i fattori comuni, è che la relazione Terapeutica, le qualità del terapeuta e le caratteristiche del paziente, hanno ricevuto maggiore attenzione (Giusti, Montanari, Montanarella; 1997).

Per avere una maggiore sicurezza, sull’affidabilità della professionalità della persona scelta, si posso effettuare delle verifiche sui siti degli albi professionali, come nel mio caso sull’Ordine degli psicologi del Lazio o su quello del consiglio nazionale ordine psicologi CNOP, i quali forniscono le informazioni inerenti all’avvenuta attestazione e qualifica del professionista (psicologo, piuttosto che psicologo-psicoterapeuta, medico-psicoterapeuta, counselor, dottore in psicologia ecc…). Molto spesso si fanno delle sovrapposizioni sulle diverse tipologie di professioni della relazione di aiuto, anche dovute dalla poca informazione che viene fatta in merito a questo tema e purtroppo agli abusi professionali. Che significa? Che persone che non hanno conseguito i titoli riconosciuti dalle istituzioni, non hanno una preparazione teorico-pratica, svolgono impropriamente attività per le quali anche legalmente non possono.


Bibliografia

Frank J., “Persuasion and healing”, Schocken Books, 1973, New York.

Frank J., ” Therapeutic components shared by all psychotherapies, in J. Harvey e M. Parks ( Eds.), The master lecture series: vol 1. Psychotherapy research and behavior change, APA, 1982, Washington DC.

Giusti E., Montanari C., Montanarella G., “Manuale di psicoterapia integrata. Verso un eclettismo clinico metodologico” 1997, Franco Angeli.

Rosenzweig S., “Some implicit common factors in diverse methods in psychotherapy” , American Journal of Ortopsychiatry, 6, 1936.

La Terapia di Gruppo

Che cosa é?

La terapia di gruppo è un’esperienza sicura in un ambiente protetto che da la possibilità a ciascun partecipante di lavorare su dinamiche personali e interpersonali, mediante la guida di un professionista, adeguatamente formato alla conduzione dei gruppi. L’aspetto sociale è molto importante per ciascuno di noi ed in un percorso di crescita personale, l’introduzione di un’esperienza di gruppo, aggiunge completezza al lavoro individuale.

Porter (1993) sostiene che la terapia di gruppo va ad integrarsi con la terapia individuale fornendo elementi complementari e mancanti. In letteratura è raccomandata anche per i disturbi di personalità (istrionica, evitante, dipendente, ossessiva-compulsiva), del controllo degli impulsi (sessuali e abuso di sostanze), dell’umore e dell’ansia e da condizioni psicotiche stabili (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004).

In questo tipo particolare di contesto, la dinamica di gruppo aiuta ciascun partecipante a confrontarsi con altri e contestualmente ad apprendere nuove prospettive che aiutano a dare una nuova forma a quelle che sono i nodi relazionali che si sono formati nel tempo. Un cambio di prospettiva può aiutare a trovare un equilibrio o a trovarne uno nuovo.

La mia personale esperienza

Nella mia esperienza di paziente, nella terapia di gruppo, ho potuto sanare dei dolori emotivi grazie al contributo dei miei compagni di viaggio, che mi hanno dato la possibilità di rivivere situazioni passate o contemporanee, dandomi feedback rispetto a come si era svolto l’episodio e di come io avessi vissuto e reagito. Tutto questo mi ha offerto l’opportunità di ri-narrare la mia storia, ripulita da quella sofferenza che a volte mi offuscava e non mi dava la possibilità di essere centrata. La terapia di gruppo mi ha aiutata, con la terapia individuale, a trovare il mio equilibrio interiore e a completare il mio percorso di crescita personale.

“E’ stata una delle esperienze più forti e formative del mio percorso!”

Nella mia formazione da psicoterapeuta è stata fondamentale l’esperienza nella conduzione dei gruppi di terapia. Ha arricchito me come persona e come professionista.


Bibliografia

Giusti E., Montanari C., Iannazzo A. (2004), Psicoterapie integrate. Piani di trattamento per psicoterapeuti, Masson.

Porter B. (1993), Combined individual and group psychotherapy, in H. Kaplan e B. Sadock (eds.), Comprehensive group psychotherapy (3rd. edn.), Williams e Wilkins, Baltimor.

Comunicazione

La Comunicazione

La comunicazione

è uno scambio interattivo osservabile fra due o più partecipanti, dotato d’intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato significato, sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura di riferimento (Anolli, 2003).

La comunicazione è un’attività complessa, è una dimensione psicologica costitutiva dell’individuo e si caratterizza per alcuni aspetti che ora passiamo in rassegna (Anolli, 2006):
  • La comunicazione è un’attività eminentemente sociale.

Il gruppo rappresenta una condizione necessaria e un vincolo per la genesi, l’elaborazione e la conservazione di qualsiasi sistema di comunicazione.

  • La comunicazione è partecipazione.

Prevede la condivisione dei significati e dei sistemi di segnalazione, basati su processi complessi che si fondano sull’accordo di regole sottese per gli scambi comunicativi.

  • La comunicazione è un’attività eminentemente cognitiva.

E’ strettamente connessa con il pensiero e con i processi mentali superiori, il pensiero e la comunicazione si organizzano in modo reciproco, poiché c’è una relazione intrinseca fra realtà pensabile e realtà comunicabile.

  • La comunicazione è un’attività intrinsecamente legata all’azione.

La comunicazione è considerata un’azione poiché è un atto rivolto nei confronti di qualcun altro. L’atto comunicativo ha degli effetti sugli scambi tra i partecipanti coinvolti all’interno di un processo che viene ad influenzarsi reciprocamente.

La comunicazione è alla base dell’interazione sociale e delle relazioni interpersonali, è una dimensione intrinseca dell’essere umano che ne esprime l’identità personale. Quest’attività umana sofisticata si stanzia all’interno di una cornice di riferimento, la cultura dei soggetti partecipanti all’interazione.

Il contributo dell’informatica allo studio della comunicazione: l’approccio matematico

Lo studio della comunicazione nelle scienze umane è piuttosto recente, in realtà questi studi sono stati resi possibili dal concetto generale d’informazione che per definizione è:

  • Espansiva, l’informazione genera ulteriore informazione;
  • Comprimibile, a livello sintattico che semantico;
  • Facilmente trasportabile e trasmissibile a una velocità molto elevata.

In generale si può definire l’informazione come «una differenza che genera differenza» (Bateson, 1972) che per sua natura è la relazione fra due o più dati, in grado di generare ulteriori conoscenze e quindi entità astratta. La nozione d’informazione come differenza è alla base dell’informatica e della cibernetica. Infatti, in queste discipline e nelle tecnologie che su di esse si fondano (computer, nuovi media), qualsiasi informazione è digitalizzata ed è trasformata in una sequenza di 0 e 1. Questo scenario è stato approfondito dall’approccio matematico allo studio della comunicazione (Shannon, 1948). Secondo tale approccio, essa va considerata come un processo di trasmissione d’informazioni mediante il passaggio di un segnale (messaggio) da una fonte A (emittente) attraverso un trasmettitore (es. voce) lungo un canale (telefono) più o meno disturbato da un rumore a un destinatario B (ricevente) grazie a un recettore (apparato acustico).

L’approccio matematico

è stato il primo a fornire un modello teorico e verificabile della comunicazione. Tale approccio implica una teoria forte del codice, condizione necessaria e sufficiente per comunicare è l’avere a disposizione un codice di trasmissione dei messaggi. Gli studiosi optano per una relazione mediata fra segno e referente e, focalizzando l’attenzione sui processi di cifratura e decifratura dei messaggi, sono stati tralasciati aspetti fondamentali della comunicazione. L’elaborazione, la condivisione dei significati, l’intenzionalità, l’inferenza e la moltitudine dei sistemi stessi di comunicazione, sono aspetti rilevanti ai quali quest’approccio non ha posto attenzione (Anolli, 2002).


Bibliografia

Anolli, L. (2002), Le emozioni. Milano, Unicopli.

Anolli, L. (2003), Mentire. Bologna, Il Mulino.

Anolli, L. (2006), Fondamenti di psicologia della comunicazione. Bologna, Il Mulino.

Bateson G. (1972), Verso un’ecologia della mente. Milano, Adelphi.

Shannon C. E. (1948), A Mathematical Theory of Communication. Bell System Technical Journal, vol. 27.

Scegliere: Primo Atto Di Una Trasformazione

Scegliere per essere liberi

Scegliere: penso che sia una delle espressioni dell’essere liberi e allo stesso tempo può mettere in crisi, nel momento in cui si deve compiere una scelta che può portare ad un cambiamento. Alcuni di noi sono piuttosto istintivi, impiegano poco tempo per decidere; altri, invece, dedicano più tempo alla valutazione delle differenti opzioni e alle possibili conseguenze. Che si tratti di fare shopping, un viaggio, comprare casa, dire la verità o continuare a mentire, iscriversi in palestra oppure no, smettere di fumare o fare la dieta, compiere una scelta può farci sperimentare l’ambivalenza.

L’ambivalenza è qualcosa che sperimentiamo quotidianamente

In letteratura l’ambivalenza è una caratteristica dello stadio della contemplazione (Arkowitz, Westra, Miller, Rollnick, 2010). Prochaska e Norcross (2004) hanno operazionalizzato il modello degli stadi di cambiamento, costituito da cinque livelli di consapevolezza dell’individuo rispetto al grado di apertura verso il cambiamento.
I cinque livelli sono:

  • pre-contemplazione,
  • contemplazione,
  • preparazione,
  • azione,
  • mantenimento.

Nella fase della contemplazione, l’individuo è consapevole che esistono dei problemi e non mette in atto comportamenti per risolverli (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2006).

A volte scegliere è faticoso, doloroso e non sappiamo neanche come poter mettere in atto una decisione presa.

 

Perché devo scegliere, non posso prendere tutto?

In alcune circostanze ci diciamo questo, a me suona familiare e a voi?

pablo scegliere cibo 2 pablo scelta

In certe occasioni la scelta ci porta a mettere in atto una condotta sana, buona per noi stessi, altre volte mettiamo in atto comportamenti a rischio, adottando delle pratiche dannose per la salute psico-fisica.

Cambiare un’abitudine, liberarsi da una dipendenza che sappiamo farci male ma a cui allo stesso tempo siamo affezionati per un certo senso di sicurezza che ci procura, può essere faticoso. Il cambiamento porta una novità che può spaventare e destabilizzare.

Non voglio cambiare, sto bene così!

Quando mi è capitato di fare quest’affermazione, ho poi capito che se stavo già contemplando un ipotetico processo di cambiamento, evidentemente c’era qualcosa dentro di me che mi portava a rivedere le mie convinzioni. Cercare di capire quali fossero i costi e i benefici che avrei sperimentato prima di passare all’azione, è stato molto utile.

Attraverso delle metodologie (Miller, Rollnick, 2002) si esplora e si risolve l’ambivalenza per accrescere la motivazione, arrivando, attraverso un percorso terapeutico, al cambiamento.

Nell’emotività si effettua il cambiamento

Sperimentando ciò che proviamo e aumentando la nostra consapevolezza, abbiamo una maggiore possibilità per essere noi i protagonisti della nostra vita, scegliendo in piena libertà. Insieme possiamo farcela!

Se ti senti in contemplazione e sei interessato a fare un passo verso il cambiamento, contattami.

 


Bibliografia

Arkowitz H., Westra H. A., Miller W. R., Rollnick S. (2010), Il colloquio motivazionale per i trattamenti dei problemi psicologici, Sovera, Roma.

Giusti E., Montanari C., Iannazzo A. (2006), Psicodiagnosi integrata. Valutazione transitiva e progressiva del processo qualitativo e degli esiti nella psicoterapia pluralistica fondata sull’evidenza obiettiva, Sovera, Roma.

Prochaska J.O., Norcross J.C. (2004), Systems of psychoterapy: A transtheoretical analysis (5th ed.), Wadsworth, New York.

Ti Manca Il Tempo Per Fare Le Cose? La Psicologia Ti Dà Una Mano

Il tempo: una risorsa preziosa

Nella nostra società il tempo è una tra le risorse più preziose che abbiamo. Per le aziende essere i primi ad immettere un nuovo prodotto sul mercato è fondamentale, abbattere i tempi di produzione, velocizzare i processi di vendita.

I top manager spendono la loro vita per essere veloci, tanto quanto gli è richiesto dalle aziende. Le prestazioni dei professionisti sono basate su tariffazioni orarie e le aziende che si occupano di trasporto fanno leva sulla velocità degli spostamenti che offrono.

Non solo il business è incentrato sul tempo, ma anche ognuno di noi ha la vita organizzata e scandita dal tempo.

Alcune volte mi servirebbe una giornata di 48 ore!

Quante volte vi è capitato di dirlo? A me, spesso. Manca il tempo!

Ad esempio, quando ho avuto l’impressione di non aver concluso tutto quello che mi ero prefissata di fare in un certo giorno. Ed arriva poi la frustrazione, per non essere stata in grado di portare a termine tutto, di aver perso tempo, accompagnata dai rimorsi “potevo evitare di andare a prendere il caffè al bar con i colleghi….”. E immancabilmente il giorno dopo, sentirmi in affanno per dover recuperare le cose da fare lasciate inconcluse, mentre i miei obiettivi sembrano essere sempre più lontani.

 

Basta, così l’ansia arriva alle stelle!

“Noi tutti abbiamo bisogno di dare una struttura al nostro tempo perché questo ci dà la sensazione di vivere davvero, di essere padroni del nostro tempo” (De Luca, Spalletta, 2011, pag 59).

Esattamente ciò che ho compreso ed iniziato a mettere in pratica. La spinta motivazionale al cambiamento, la benzina che alimenta il motore, è stata la voglia di raggiungere le mie soddisfazioni, come quando si vuole arrivare al traguardo, veloce e vincente come lo sprint finale in una corsa di moto.

Perché?

  • Per sentirmi libera dall’ansia;
  • Per non provare più la sensazione di affanno.

Come?

  • Prendendo coscienza che la giornata si può organizzare in modo più strutturato;
  • Imparando ad utilizzare l’agenda per gestire il mio tempo.

 

Di cosa è fatta una giornata

La giornata è fatta anche dagli imprevisti, piacevoli o antipatici che siano.

Prendere il caffè con un amico che non si vede da tempo, è bello e fa piacere.

La ruota della macchina che si buca mentre si va a fare la spesa… beh, è spiacevole e può succedere.

L’utilizzo dell’agenda ci aiuta ad organizzare la giornata, quindi è necessario annotare i nostri impegni, scanditi da orari stabiliti, lasciando un margine di tempo tra l’uno e l’altro e, ancor più importante, lasciare del tempo per gli imprevisti.

Gestire bene il tempo aiuta l’autostima

La gestione del tempo va ad impattare anche sullo sviluppo del nostro empowerment e sull’autostima (Giusti, Testi, 2006; Wolfe, 2007).

Tra i nostri amici, familiari o colleghi ci sarà capitato di notare una persona con delle chiare difficoltà nella gestione del proprio tempo, magari pensando “che disastro”, e vederla peggiorare negli anni.

Probabilmente, le giustificazioni che questa persona fornisce per i suoi insuccessi non sono scuse e non sono bugie, ha semplicemente bisogno di imparare a conoscere e gestire una risorsa tanto preziosa che in realtà le fa provare ansia.

Una tecnica: scegli e monitora i tuoi obiettivi

Ci sono diverse tecniche ed accorgimenti che si possono mettere in pratica, ad esempio si può procedere facendo “La lista dei miei obiettivi” (Gambarasio, 2007): si scelgono e si scrivono cinque obiettivi da raggiungere per i sei mesi successivi, mettendoli in ordine di priorità.

Priorità Obiettivo
1.           
2.           
3.           
4.           
5.           

 

Fatta la lista, si procede con il monitoraggio del processo, rispondendo alle seguenti domande:

  • Cosa voglio ottenere?

  • Quali sono i miei obiettivi?

  • Quali sono le mie priorità?

  • A cosa d’importante dovrei dedicare il mio tempo?

Attraverso l’introspezione possiamo mettere in primo piano ciò che realmente vogliamo ottenere, consapevolmente, con le risorse di cui disponiamo.

Il tempo può dare molto di più, il tempo è vita, è gioia, è soddisfazione, è amicizia, è piacere.  


Bibliografia

De Luca K., Spalletta E., (2011), Praticare il tempo. Manuale operativo per ottimizzare la vita personale e professionale,Sovera, Roma.

Gambarasio G., (2007), Più risultati in meno tempo, Franco Angeli, Milano

Giusti E., Testi A., (2006), Vincere quasi sempre con le 3 A, Sovera, Roma.

Wolfe B. E., (2007), Trattamenti integrati per i disturbi d’ansia, Sovera, Roma.

Come Ho Sconfitto Le Mie Frasi Killer E Come Le Uso Con I Miei Pazienti

Devi credere in te stessa! Da qui parte la mia riflessione.

E’ sufficiente ripetermi da sola “ce la posso fare” affinché le cose cambino?

No, non basta. Certo, mi è stato d’aiuto darmi un po’ di coraggio e dirmi che avevo tutte le carte in regola per ottenere ciò che volessi.

Ma non funziona così, o meglio, per me è stato vero fino ad un certo punto.

Infatti, non mi spiegavo perché, nonostante il mio auto-incoraggiamento prima di una prova importante, provassi così tanta ansia, proprio io che non sono particolarmente ansiosa, anzi.

O perché, prima di una valutazione, mettessi in discussione la mia preparazione, al punto che perfino l’esperienza acquisita sembrava sparire in alcune circostanze.

Il concetto di autoefficacia (Bandura, 2000; Clum, Rice, Broussard, Johnson, Webber, 2014) ovvero la convinzione che si ha nell’essere in grado di portare a termine gli obiettivi prefissati, mi colpì molto durante gli studi universitari, così da farlo diventare il mio motto.

Attenzione alle frasi killer

E’ stato consolatorio, ma essendo analitica e cognitiva ho bisogno di capire il perché delle cose. Andando a scavare nei meandri del mio inconscio, ho trovato le cosiddette frasi killer: sono quelle frasi che sentiamo dire dalle figure genitoriali quando siamo bambini e che, dette volontariamente o inconsapevolmente, ci segnano per tutta la vita.

Eccone qualche esempio:

Effetto su di noi delle frasi killer

Questi sono solo alcuni esempi di frasi killer che sminuiscono la persona e il suo saper fare, andando a minare lo sviluppo dell’autoefficacia personale. Queste frasi sono rafforzate in quanto sono dette generalmente dalle figure genitoriali, contribuendo a costruire delle credenze non veritiere sulle capacità che (non) si hanno per affrontare e superare le prove della vita.

Scoprire il proprio copione

Ho ricondotto le mie frasi killer ai copioni (Stewart, Joines, 2000), che, spiegati in modo molto sintetico e semplicistico, altro non sono che delle decisioni inconsapevoli prese nell’infanzia, che ci aiutano a definire la realtà in cui viviamo.

La storia di Maria

In un percorso di counseling con una cliente molto giovane che ho seguito, abbiamo lavorato sul concetto di autoefficacia, analizzando quelli che sono stati i suoi successi, le decisioni prese e le strategie utilizzate per il raggiungimento degli obiettivi. Già il solo fatto di aver esaminato i suoi traguardi è stato importante per lei, in quanto non si era mai soffermata su questo aspetto:

averli visti come successi ha cambiato la sua prospettiva.

Maria comincia a valutarsi meglio

Aver dato una valenza positiva e messo in risalto le ricchezze a disposizione ha comunque portato la mia cliente ad avere un altro angolo di prospettiva su se stessa.

Il lavoro che si può fare sull’autoefficacia mi appassiona e al contempo lo trovo estremamente stimolante: lo si può fare scegliendo il tipo di livello a cui si è pronti a lavorare e soprattutto sul quale il cliente o paziente è disposto e pronto ad arrivare. Ognuno sceglie la propria profondità, tu a quale profondità sei disposto a scendere?

Ti piace il mio modo di lavorare? Sentiamoci!

Insieme possiamo fare un percorso di counseling per aumentare la tua autoefficacia. Scrivimi a info@robertasette.it oppure chiamami al +39 3384282200.


Bibliografia

Bandura A. (2000). Autoefficacia. Teoria e applicazioni. Erickson.

Clum G.A., Rice J.C., Broussard M., Johnson C.C., Webber L.S. (2014). Associations between depressive symptoms, self-efficacy, eating styles, exercise and body mass index in women. Journal of Behavioral Medicine, Vol. 37, Issue 4, pp 577-586.

Stewart I., Joines V. (2000). L’analisi transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani. Garzanti.

Io E Le Emozioni In Un Passo A Due!

Voglio condividere un’esperienza nuova di gruppo che ho vissuto. Ho partecipato ad un lavoro di gruppo di psicoterapia a indirizzo psicodinamico e ho avuto modo di interrogarmi su ciò che per me è il silenzio.

Cos’é un gruppo di psicoterapia?

Ci sono varie tipologie di gruppo e tecniche differenti che vengono utilizzate dal conduttore mentre si lavora. Il lavoro in gruppo è:

«un processo attraverso il quale venire incontro alle particolari esigenze relative ai bisogni individuali e di gruppo, basato su una visione della persona come entità in costante interazione e rapporto con gli altri» (Benson, 1993, p.23).

Il gruppo è generalmente costituito da un massimo di quattordici partecipanti, seduti in cerchio, in modo da poter avere il contatto visivo l’uno con l’altro (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004).

Il gruppo psicodinamico

Così come per altre tipologie, il gruppo psicodinamico è condotto da un terapeuta, il quale agevola i partecipanti, effettuando delle riformulazioni sulle riflessioni che ciascuno ha condiviso. Questo tipo di gruppo differisce da quello gestaltico, che frequento regolarmente, per alcuni aspetti, tra cui la regola fondamentale che ognuno deve parlare per sé e nessuno deve esprimere il proprio parere su ciò che è stato appena condiviso da un membro del gruppo. In una dinamica di questo tipo si creano dei momenti di silenzio, più o meno lunghi, che ciascun membro vive e sperimenta in modi differenti.

Sentire il silenzio

Durante questa esperienza Ho sentito il mio silenzio, e citando il dott. Antonio Iannazzo:

il silenzio è presenza.

Il silenzio non è assenza di qualcosa, è presenza, è vicinanza, anche all’interno della relazione terapeutica. Per poter entrare in contatto vero con l’altro, si ha necessità di comprenderlo. La comprensione presuppone una condizione fondamentale che è l’ascolto dell’altro, inteso come apertura dell’Essere nei confronti del mondo, e non può esistere un ascolto autentico se non ci si mette in una disposizione silenziosa alla comprensione dell’altro (Guido, Motta, 2008).

Cosa posso prendere dal mio silenzio?

Nel mio silenzio ho trovato pace e quiete, curiosità e confronto, che mi hanno portata a riflettere e porre attenzione su quelle che sono le mie emozioni e su quello che invece sono i vissuti e i sentimenti degli altri. Fare i conti con il proprio silenzio non è semplice, potete immaginare com’è stare con il silenzio dell’altro? Il lavoro del terapeuta è anche questo, saper stare in silenzio con l’altro, e per farlo si deve necessariamente lavorare su se stessi.

Ballare nel gruppo con le mie emozioni

Durante gli incontri di gruppo il lavoro è intenso. Alcune volte mi capita, anche se non lavoro io direttamente, di sentire delle forti emozioni. L’esperienza di gruppo per me è la traduzione fenomenologica di ciò che è la psicologia della Gestalt: “il tutto è più della somma delle singole parti”.

Il gruppo fa da cassa di risonanza per le emozioni, ogni incontro è speciale, è unico e per me è come se ogni volta fosse la prima volta, con la consapevolezza che il legame e la fiducia con esso si rafforzano sempre di più. Quando sono seduta in cerchio nel gruppo, come in un passo a due di danza, io e le emozioni iniziamo a volteggiare, strette come in una presa del ballerino che sostiene la sua partner; ed è qui che inizia la mia sfida, il mio allenamento.

Verso il MIO passo a due

Danzare in un passo a due è lasciarsi permeare con l’altro e allo steso tempo aver chiaro il proprio confine, arrivare ad avere una padronanza della tecnica e una sintonia con il partner tale per cui la variazione agli occhi dello spettatore sembra la cosa più naturale che due esseri umani possano fare insieme. Questo è quello che voglio, questa è la mia sfida, questo è quello per cui mi alleno: portare nella relazione d’aiuto il mio passo a due!


Bibliografia

Benson J.F., Gruppi, organizzazione e conduzione per lo sviluppo personale, Roma, Sovera, 1993.

Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., Psicoterapie integrate. Piani di trattamento per psicoterapeuti con interventi a breve, medio e lungo termine, Milano, Masson, 2004.

Guido A., Motta S., Fenomenologia del silenzio lungo il “confine di contatto”, in “Psychofenia”, vol. XI n. 19, 2008.

Scrivo Una Lettera Per Te (Che Non Leggerai Mai)

Cosa è cambiato da quando vado in terapia?

Non è cambiato nulla, sono la stessa di un anno fa se non fosse che ho una consapevolezza differente di me stessa.

La mia consapevolezza parte da una lettera, in terapia la scrittura è spesso utilizzata.

Fare un diario

Alcune volte si propone al paziente, o cliente, di tenere un diario (De Luca, Spalletta, 2011; Giusti et alia 2014).

La scrittura è una forma terapeutica che per alcuni può essere molto efficace e come forma di autosostegno, nel percorso di terapia.

 

Scrivere una lettera ad una persona che temevo di ferire

La mia terapeuta mi chiede di scrivere una lettera, scrivere tutto ciò che avrei voluto dire ad una persona in particolare a cui non ho avuto coraggio di dire alcune cose per timore di farle male.

Questo mio timore portava a farmi stare male. Nel momento in cui me lo ha proposto ho accettato senza troppe remore anche se pensavo che non sarebbe servito.

Ok. Scrivere una lettera per te, ad una persona che tanto non leggerà quanto ho da dirle. Passato qualche giorno, mi prendo il mio tempo e il mio spazio, il mio momento di totale raccoglimento e con il foglio bianco davanti e la penna lascio andare la mano.

La mano libera converte in scrittura i sentimenti provenienti dal mio cuore, profondi e sinceri, dolorosi e tristi.

Le lacrime scendono giù perché il cuore si sta liberando del dolore provato.

 

Dalle lacrime alla ricomposizione del puzzle

Pagine e pagine di PAROLE cariche di significati e vissuti, una lettera struggente. Alla seduta successiva la leggo ad Anna, la mia terapeuta e non riesco a trattenere le lacrime e questa per me è una liberazione, con lei sono libera di piangere.

Con lei ho saputo dare un significato alle mie emozioni a ricondurre i pezzi nel verso giusto per me e capire cosa ci fosse dietro al dolore e alla tristezza che provavo.

Con le sedute successive ho iniziato a metabolizzare quello che avevo sperimentato e a consapevolizzare man mano pezzi di me e ricomporre un puzzle che per me ha senso.

Il senso è il mio, questo mi dà forza, questo mi consola.


Bibliografia

De Luca K., Spalletta E., (2011). Praticare il tempo. Manuale operativo per ottimizzare la vita personale e professionale.Sovera. Roma

Giusti E., Scassaioli E., Milani C. (2014) Tecniche per l’Autocontenimento. Sovera. Roma.

Quali Sono Le Emozioni “Positive”? Qual È Il Loro Potere?

L’interesse nei confronti delle emozioni, e più in generale nei confronti della vita affettiva, ha origini dall’antica Grecia.

Platone considerava le emozioni importanti quanto la ragione e i bisogni fisici di base, Aristotele le considerava tendenze biologiche di base nell’esperienza affettiva (Averil, More, 1993), analizzando la relazione tra convinzioni ed emozione, concezioni oggi riprese dalle attuali teorizzazioni (Lazarus, 1999).

Cos’è un’emozione?

Le emozioni sono stati affettivi intensi e di breve durata, hanno una causa precisa scatenante, che può essere sia interna che esterna, con un contenuto cognitivo definito. Le emozioni hanno un inizio, una durata e una fase di attenuazione caratterizzata dalle espressioni facciali e il relativo comportamento adattivo (D’Urso, Trentin, 2006).

Alcuni studiosi sostengono che ci siano 2 stati emotivi di base, felicità e tristezza (Weiner, Graham, 1984); altri sostengono che ci siano 9 o più emozioni di base. Queste divergenze hanno portato alcuni ricercatori a rifiutare completamente il concetto delle emozioni di base (Averill, 1994; Shweder, 1994).

Gli studi sulle emozioni

Lo studio delle emozioni presenta differenti modelli e all’interno dell’approccio categoriale le emozioni positive, più frequentemente annoverate tra le emozioni primarie, sono due: gioia e sorpresa (Tomkins, 1962; Plutchik, 1995). I modelli dimensionali classificano le emozioni positive sulla base di due dimensioni: attivazione/disattivazione e piacevolezza/spiacevolezza o valenza edonica (Russell e Feldman Barrett, 1999). La gioia e la felicità sono emozioni specifiche degli stati positivi, ovvero in assenza di emozioni negative (Fredrickson, 1998; Seligman e Csikszentmihalyi, 2000; Sheldon e King, 2001; Fredrickson e Cohn, 2008).

Di cosa sono fatte le emozioni “positive”?

Oltre ai modelli già citati per lo studio delle emozioni, Ciceri (2015) pone l’accento sulle ricerche che si sono proposte di individuare le componenti specifiche delle emozioni “positive”.

Tutte le emozioni sono in realtà utili e positive, ma comunemente definiamo “positive” quelle piacevoli, mentre “negative” quelle più scomode come rabbia e tristezza.

Alcune ricerche hanno esaminato i resoconti verbali di esperienze soggettive, da cui sono stati estratti fattori o dimensioni caratterizzanti. Da questi studi (Watson et al., 1999; Tellegen, Watson e Clark, 1999; Argyle e Crossland, 1987; Tong, 2007) sono emerse quattro componenti, presenti in tutte le emozioni positive, seppur in gradi diversi:

  • la concentrazione o assorbimento;
  • il senso di potenza o raggiungimento di un obiettivo;
  • l’altruismo, o messa in atto di risposte a esigenze sociali;
  • la spiritualità, intesa come ciò che rende le esperienze serie e profonde, sperimentando un senso di soddisfazione totale e di pienezza.

Cos’è la gioia?

Shiota e collaboratori (2014) individuano che emozioni quali la gioia, la contentezza, il rilassamento, sono esperite dalla percezione di aver raggiunto uno scopo e nell’aver conquistato una ricompensa, che può essere intrinseca o esterna al soggetto.

Al contrario del piacere che deriva dal soddisfacimento di un bisogno, le emozioni, in particolare quelle della famiglia della gioia,

vengono attribuite ad una esperienza positiva diversa e più duratura, che si genera quando si va oltre il raggiungimento dell’omeostasi (appagamento), favorendo la crescita personale fino al raggiungimento di una situazione positiva a lungo termine (Ciceri, 2015).

Dall’esperienza emotiva scaturisce la tendenza all’azione: l’avvicinamento, per esempio, coinvolge l’individuo a livello fisico, mentale e comportamentale (Ciceri, 2015).

La gioia, spesso chiamata anche felicità, porta ad una vicinanza all’oggetto che induce attrazione ed interesse. Questa emozione porta all’apertura e all’esplorazione dell’ambiente e degli individui presenti. Un’espressione tipica dell’esplorazione gioiosa è il gioco, che induce a scoprire l’ambiente senza uno scopo, nel senso più ampio del termine, coinvolgendo aspetti fisici, sociali, intellettuali ed artistici (Ciceri, 2015).

Le altre emozioni positive: interesse, euforia, stupore, tenerezza, sollievo

L’interesse spiega la propensione all’apprendimento e all’esplorazione attiva (Lazarus, 1991). L’interesse è tra le emozioni positive con un’alta attivazione e capacità di controllo, nonostante abbia una valenza edonica minore rispetto alle emozioni della gioia, euforia e del divertimento (Ciceri, 2015). Alcuni studi effettuati sull’interesse (Ryan e Deci, 2000) hanno messo in evidenza che

mentre viene svolta un’attività, l’interesse ha una funzione stimolante sulla durata del coinvolgimento, sulla volontà a ripetere tale attività e sullo sviluppo delle competenze impiegate.

L’interesse favorisce l’individuo nella comprensione del testo e nel ricordare il materiale esaminato, tanto maggiore è l’interesse per il testo (Silvia, 2001, 2005, 2006). L (2002) attua una trasformazione corporea per cui

l’individuo si sente fuori dal mondo.

Il corpo è attivato e ne deriva una spinta a comunicare all’altro ciò per cui l’emozione si è scatenata (Ciceri, 2015).

Lo stupore (meraviglia, incanto) induce ad una tendenza all’azione mentale, intesa come riflessione, contemplazione, coinvolgimento. Lo stupore e le emozioni semanticamente vicine, sono sostanzialmente dirette verso oggetti che suscitano nell’individuo una prima fase di inattività sospesa, che può prevedere momenti di apnea che favoriscono la contemplazione (Ciceri, 2015). L’oggetto esterno è valutato eccezionale per la sua bellezza (esperienza estetica), per la sua maestosità o intrinseca piacevolezza. Schindler, Peach e Lowenbruck (2014) parlano di ammirazione e adorazione come una declinazione sociale della meraviglia. L’ammirazione porta ad avvicinarsi alla persona ammirata per costruire una relazione significativa.

Il Sollievo, la tranquillità, la serenità conducono l’individuo ad un comportamento basato sull’inattività (Frijda, 1989). Ellsworth e Smith (1988) lo definiscono come, «non fare nulla». Per questa famiglia di emozioni non c’è la tendenza all’azione, è uno stato di calma mentale (Ciceri, 2015).

La serenità facilita l’apertura e la propensione al prendersi cura dell’altro (De Rivera, Lois e Julie, 1989),

è un’emozione che spinge l’individuo a gustare la quotidianità, sperimentando unità e attribuzione di un senso attorno a sé (Ciceri, 2015).

La tenerezza, l’innamoramento sono una dimensione emotiva che fa ampliare il repertorio esplorativo dell’individuo nel momento in cui conosce, gusta o gioca con la persona o con l’essere vivente con cui intrattiene una interazione (Ciceri, 2015).

Le emozioni positive portano ad una più ampia visione delle situazioni.

Per tutti questi motivi capite bene quando sia importante generare in noi e nei nostri pazienti delle emozioni “positive”! 


Bibliografia

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Plutchik, R. (1995). Psicologia e biologia delle emozioni. Torino: Bollati Boringhieri.

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Sheldon, K.M., King, L. (2001). Why Positive Psychology is necessary. American Psychology, 56, 216-217.

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Nella Mia Terapia Non C’è Solo La Rabbia

Nella mia terapia individuale non c’è solo la rabbia, pianto e sofferenza. Con la mia terapeuta, affrontiamo temi anche piacevoli.

La terapia fa male

Ho iniziato il mio percorso individuale con molta serenità, pensando che tutto sommato funzionassi bene e che non avevo bisogno di grandi stravolgimenti. Un giorno arrivo alla mia seduta e mi ritrovo a parlare di quello che stavo provando e che erano giorni che piangevo. Un evento ha fatto sì che il vaso di Pandora si aprisse, e da quel momento ho iniziato a provare dei sentimenti che non riuscivo a confinare e contenere.

“La favola che mi ero raccontata durante la crescita non vale più.”

Emozioni e sentimenti che riaffioravano, che non ho voluto portate in figura prima ed ora nel momento in cui l’ho fatto, ho iniziato a stare male e soffrire. Ho capito che volesse dire quando le persone che mi raccontavano della loro terapia “faceva male”.

“E adesso che succede? Quanto ancora devo soffrire?”

Man mano che sono andata in seduta ed ho affrontato i miei vissuti passati, questi sono diventati ricordi, per i quali ora riesco a gestirne le emozioni e di cui riesco a parlarne senza avere la voce rotta e con le lacrime pronte a scivolare sulle guance.

 

Andare in terapia non vuol dire solo soffrire

Passato questo momento doloroso, di esplorazione, metabolizzazione e di consapevolizzazione, iniziano delle sedute diverse. Quando mi siedo inizio a parlare di come mi sento nel qui e ora. L’approccio umanistico integrato, come altri, incentra il lavoro terapeutico con il paziente esplorando quello che c’è nel momento in cui si sta svolgendo la relazione (Giusti, Pagani, 2014).

E ora in terapia che si fa?

Per me è iniziata una fase nella quale non necessariamente si va nel profondo per effettuare un intervento di ristrutturazione della personalità (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004).

Io e la mia Terapeuta, Anna

La mia terapeuta, Anna, mi ha suggerito di leggere il libro di Frisch (2000), il quale ha ideato un tipo di terapia incentrato sulla qualità di vita definendo gli ambiti nei quali le persone trovano maggiore soddisfazione e appagamento: salute fisica, auto-stima, filosofia di vita (scopi e valori), standard di vita, tipo di lavoro, attività di svago, specializzazioni di interesse sia lavorative che non, creatività, supporto e aiuto agli altri, relazioni intime, amicizia, relazioni con bambini propri e altrui, relazioni con i familiari, abitazione, ambiente e luogo in cui si vive.

Con mio grande piacere affronto anche tematiche che rinforzano la mia autostima, il mio senso di autoefficacia. Sto imparando a riconoscere i miei “successi” a livello personale, i piccoli passi che faccio sono a tutti gli effetti delle conquiste, che sono di volta in volta rinegoziate sulla base delle mie esperienze e dei miei cambiamenti.

Affronto temi che mi rilassano

Non è detto che la terapia porti ad un cambiamento solo attraverso il dolore, allo straziante vissuto del passato che ci ha fatto soffrire. Il cambiamento avviene nell’emotività e in questa esistono anche le mozioni positive, la gioia, l’interesse, l’armonia e l’amore (Fredrickson, 1998). Sono queste le emozioni che rafforzano le convinzioni di autoefficacia (Bandura, 2000), sapere di potercela fare e poter andare avanti nonostante gli ostacoli e le difficoltà.

Negli ultimi anni il numero crescente di studi sulle emozioni positive, dimostra che queste costituiscono un costrutto con peculiarità e finalità adattive sul potenziamento del benessere dell’individuo sul piano fisico, cognitivo e sociale (Ciceri, 2015). Durante una seduta mentre io e la mia terapeuta parlavamo dello svolgimento dei nostri incontri, mi dice:

“Roberta, la vita è fatta di cose belle e di cose brutte e per la terapia è lo stesso!”

Un percorso in evoluzione

Un’evoluzione che mi ha portato a prendere un po’ cura di me e mi sta aiutando ad apprezzare di più quello che ho, che faccio e soprattutto chi sono, Roberta.

 


Bibliografia

Bandura A., (2000). Autoefficacia. Teoria e applicazioni. Erickson.

Ciceri M. R., (2015). Emozioni positive e benessere psicologico. «Ricerche di Psicologia», n. 1, pp. 141-153.

Fredrickson, B.L., (1998). “What good are positive emotions?”«Review of General Psychology», vol. 2, n. 3, pp. 300-319.

Frisch Michael B., (2000). Psicoterapia integrata della qualità della vita. Sovera, Collana di Edoardo Giusti.

Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., (2004). Psicoterapie integrate. Piani di trattamento per psicoterapeuti a breve, medio e lungo termine. Masson, Milano.

Giusti E., Pagani A., (2014). Il Counseling Psicologico. Sovera, Roma.

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